Si immagini che l'imprenditore Tizio, sposato con Tizia dalla quale ha avuto due figli (Caio e Sempronio), istituisca un trust avente ad oggetto i suoi immobili ed a favore dei suoi familiari, trasferendo detti immobili al trustee Mevio.
Il trust viene trascritto nei registri immobiliari e successivamente Tizio fallisce.
Tale fallimento produrrà senz’altro lo scioglimento del trust se così prevede l'atto istitutivo.
Se invece (come appare assai probabile) nulla è previsto per tale eventualità, che cosa accade?
Si potrebbe sostenere che il trust, essendone in corso di esecuzione il programma destinatorio, ha natura di "rapporto pendente" alla data del fallimento.
In tale ottica, dunque, dovrebbero essere applicati l’art. 78, commi 2 e 3, l. fall. (dettati per il fallimento del mandante) ovvero (come pare preferibile, stante la non assimilabilità del negozio destinatorio ad un mandato) la norma generale contenuta nell’art. 72 l. fall.; se poi avesse luogo l’esercizio provvisorio dell’impresa, dovrebbe invece applicarsi l’art. 104, comma 7, l. fall.
L’applicazione dell’art. 78, commi 2 e 3, o dell’art. 72 l. fall. condurrebbe fra l'altro a conseguenze identiche: la sospensione dell’esecuzione del trust, in attesa che il curatore scelga se subentrarvi (assumendo, così, la medesima posizione giuridica del disponente fallito, scelta questa di ben poca utilità per la procedura) ovvero sciogliersi dal medesimo (acquisendo i beni in trust alla massa fallimentare).
Durante l’eventuale esercizio provvisorio dell’impresa, invece, l'applicazione dell'art. 104, comma 7, l. fall. comporterebbe che il trust continui ad avere esecuzione, salvo che il curatore decida di sospenderla o di sciogliersi da esso.
A ben guardare, però, la suddetta assimilazione del trust ad un rapporto pendente alla data del fallimento appare assai criticabile.
In primo luogo, infatti, la normativa fallimentare sui rapporti pendenti si applica ai contratti nei quali vi è un vincolo sinallagmatico fra le prestazioni di una delle parti e la controprestazione dell'altra, e ciò non accade nel caso del trust.
Esso infatti non è probabilmente un contratto e, anche ove lo si volesse ritenere tale, non si tratta di un contratto sinallagmatico (neppure - si badi - se il trustee riceve un compenso).
Nel caso di inadempimento del trustee, infatti, non si potrebbe certo pervenire alla risoluzione del trust per inadempimento (rimedio questo che è tipico dei contratti sinallagmatici: cfr artt.1453 e segg. cc), poiché da ciò riceverebbero danno i beneficiari, ma soltanto alla sostituzione del trustee e ad una domanda risarcitoria nei suoi confronti.
Analogo discorso varrebbe, del resto, laddove i beni destinati fossero insufficienti a consentire al trustee di ricevere il compenso: in tal caso, infatti, egli ben potrebbe dimettersi, ma non certo risolvere il trust per inadempimento.
Occorre poi considerare che il fallito-disponente, stipulando il trust, ha già completamente eseguito la sua prestazione (data dalla costituzione del vincolo sui beni, eventualmente accompagnata – se il negozio non è autodichiarato – anche dal trasferimento degli stessi al trustee): impedisce dunque l’utilizzo della disciplina in esame l’art. 72, comma 1, l. fall., che presuppone l’esistenza di un negozio «ancora ineseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti» ed esclude l’applicazione della norma se «nei contratti ad effetti reali, è già avvenuto il trasferimento del diritto».
Parrebbe, dunque, preferibile ritenere che il trust in esame sopravviva al fallimento del disponente e che la curatela possa impugnarlo, ove ne sussistano i presupposti, avvalendosi delle azioni di inefficacia e revocatorie previste dagli artt. 64, 66 e 67 l. fall., così come accade, ad esempio, per il fondo patrimoniale (cfr. art. 46, comma 1, n. 3, l. fall.).
Nelle due prossime newsletter analizzeremo, rispettivamente, le conseguenze del fallimento del trustee e del fallimento del beneficiario.
Avvocato Saverio Bartoli, Firenze